
Il brevetto che minaccia Bitcoin
Una controversa causa negli Stati Uniti rimette in discussione la neutralità tecnologica della blockchain e il ruolo ambiguo dei “patent trolls”
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Introduzione
C’è una vicenda, apparentemente tecnica e periferica, che rischia di cambiare gli equilibri dell’ecosistema cripto: una società semi-sconosciuta chiamata Malikie Innovations ha intentato causa contro due grandi operatori del mining di Bitcoin (Marathon Digital e Core Scientific), sostenendo di detenere i diritti di brevetto su alcune tecnologie fondamentali utilizzate nella blockchain di Bitcoin.
Al centro del contendere: l’elliptic curve cryptography (ECC), cuore pulsante della sicurezza delle transazioni su Bitcoin.
Se le rivendicazioni di Malikie si rivelassero fondate, saremmo davanti a un precedente dirompente, capace di riaprire la questione mai veramente sopita del rapporto tra brevetti software e tecnologie open source.
Il ritorno dei fantasmi: i brevetti di BlackBerry e la genesi della causa
Nel 2023 BlackBerry, ormai lontana dai fasti dell’era mobile, ha venduto circa 32.000 brevetti non-core a Malikie Innovations, società controllata da Key Patent Innovations. L’operazione è stata valutata in 170 milioni di dollari ed ha escluso i brevetti “core” ancora utili al business di BlackBerry, includendo però portafogli relativi a crittografia, comunicazioni wireless e software.
Secondo Malikie, tra questi ci sarebbero anche alcuni brevetti che coprirebbero l’utilizzo dell’ECC, una tecnica crittografica che oggi è standard per la sicurezza digitale e che è anche parte integrante dell’architettura di Bitcoin.
Da qui la denuncia: i due operatori avrebbero utilizzato senza licenza tecnologie coperte dai diritti ora detenuti da Malikie per alimentare la loro attività di mining.
Tecnologia pubblica o proprietà privata?
È qui che si apre il nodo giuridico e filosofico perché l’ECC non è un’invenzione segreta o una tecnologia riservata, ma una tecnica matematica nota, documentata e, in gran parte, implementata tramite software open source.
Bitcoin stesso è nato come progetto libero basato su standard pubblici e modificabili. Eppure il diritto dei brevetti, almeno nel sistema statunitense, può proteggere anche specifiche implementazioni, ottimizzazioni, o “use cases” dell’ECC.
La domanda allora è: Malikie sta realmente difendendo un diritto di proprietà intellettuale legittimo o sta semplicemente cercando di estrarre valore da un’area grigia del diritto brevettuale?
Le opinioni divergono: da un lato c’è chi denuncia l’ennesimo caso di “patent trolling”, cioè l'utilizzo strumentale di brevetti per ottenere risarcimenti milionari senza contribuire in alcun modo all’innovazione. Dall’altro c’è chi ricorda che anche le innovazioni open source devono confrontarsi con l’ecosistema brevettuale che non ammette eccezioni per le “buone intenzioni”.
Il precedente che può minacciare l’intero ecosistema cripto
Il rischio è che una vittoria di Malikie possa aprire la strada a un effetto domino: altri miner, sviluppatori, aziende cripto potrebbero essere trascinati in tribunale.
Il principio in gioco è quello della responsabilità a catena per l’uso di tecnologie brevettate anche in software open; principio che la giurisprudenza americana ha già incontrato, ma che raramente ha applicato con durezza.
Se la corte dovesse riconoscere validità alle rivendicazioni di Malikie, potremmo trovarci di fronte a un nuovo assetto giuridico dove l’interoperabilità aperta della blockchain entra in conflitto con i diritti esclusivi dei titolari di brevetti.
Domande senza risposta (per ora)
Malikie cercherà davvero una condanna o punta a una transazione miliardaria?
I suoi brevetti sono effettivamente validi, o si tratta di documenti tecnici ormai superati?
E soprattutto: è giusto, oggi, utilizzare lo strumento del brevetto per aggredire un’architettura nata per essere resistente al controllo centralizzato?
Forse, più che una questione legale, siamo di fronte a un cortocircuito culturale: la collisione tra la logica proprietaria del sistema IP e l’utopia decentralizzata del Web3. Come diceva Lessig*, se “il codice è legge”, allora forse è il momento di chiederci: di chi è la legge che regola il codice?
*Lawrence Lessig, professore di diritto alla Harvard Law School, esperto di proprietà intellettuale e uno dei padri fondatori del movimento per la cultura libera.
Creatore delle licenze Creative Commons.
La frase “Il codice è legge” (“Code is law”) è una delle sue tesi piu celebri formulata nel suo libro “Code and Other Laws of Cyberspace” del 1999, poi aggiornato nel 2006 con il titolo “Code: Version 2.0”.