L’infanzia al tempo dell’intelligenza artificiale

C’è un silenzio particolare che accompagna la crescita dei bambini di oggi. Non è il silenzio delle stanze di una biblioteca, né quello lieve e sereno della natura, ma un silenzio elettronico, vibrante, illuminato dalla luce azzurra di uno schermo. In quel silenzio così diverso da quello che conoscevamo noi, le nuove generazioni imparano a interrogare macchine invisibili che rispondono, disegnano, spiegano, confortano. E fin dalla più tenera età, la loro immaginazione si mescola con un algoritmo che decifra e amplifica le loro domande.

Oggi, più che testimoni di un evento isolato, siamo partecipi di una nuova fase di un cammino che affonda le radici in una storia lunga, già segnata da decenni di progressiva accelerazione del pensiero e impoverimento dell’attesa. La riduzione del tempo che intercorre tra la domanda e la risposta, la smania di eliminare l’incertezza e di consumare subito ogni possibile soluzione, non sono certo nate con l’intelligenza artificiale ma si erano già manifestate nell’epoca della televisione onnipresente e del flusso compulsivo dei social network: da un flusso di cultura lenta ad una sequenza incessante di emozioni pronte all’uso. 
Ciò che distingue la nostra stagione, e che la rende più inquietante, è semmai la qualità dell’esperienza che l'IA introduce: più sottile, più pervasiva, più intima, simile ad una voce interiore che intercetta ogni nostro impulso e si insinua silenziosa laddove un tempo abitava il mistero.

Nel mese di gugno 2025, il Turing Institute, insieme all’UNICEF e alla LEGO Foundation, ha deciso di ascoltare davvero i bambini chiedendo loro che cosa significhi crescere in un mondo in cui le macchine rispondono alle domande prima ancora che si impari a formularle. Una ricerca pionieristica, pubblicata il 7 luglio 2025 su Social Science Research Network (SSRN), ha restituito le voci dei piccoli, dei genitori e degli insegnanti, componendo un ritratto sobrio e inquietante della nostra epoca.

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Capire per educare attraverso i risultati dello studio internazionale

Da questo documento apprendiamo che, nel Regno Unito, quasi un bambino su quattro tra gli 8 e i 12 anni ha già usato almeno una volta un sistema d’intelligenza artificiale generativa. Non è una percentuale clamorosa in senso assoluto in un mondo già profondamente digitale, ma significativa per ciò che rivela: l’abitudine precoce ad uno strumento che promette risposte immediate e impeccabili senza la fatica della ricerca.

Tra i bambini che usano l’intelligenza artificiale, la maggior parte sceglie ChatGPT, seguito da Gemini e MyAI di Snapchat, con una lieve prevalenza complessiva dell’uso tra le femmine. Tra i bambini con bisogni educativi speciali l’utilizzo è ancora più diffuso e spesso accompagnato da gratitudine: per molti l’IA è un compagno silenzioso che li aiuta a comunicare pensieri difficili.

Eppure durante i laboratori creativi organizzati nelle scuole, i piccoli hanno confessato un disagio difficile da ignorare: la paura che le risposte non siano vere, la frustrazione di sentirsi rappresentati in modo sbagliato, la consapevolezza che questa tecnologia costa risorse preziose alla Terra. 
Una bimba ha confessato che non voleva rovinare la natura soltanto per vedere un disegno comparire sullo schermo, lasciando intravedere tutta la sua inquietudine per l’impatto che questa magia elettronica ha sull’ambiente.
Un’altra ha notato che le immagini generate non assomigliavano mai alle persone che conosceva: un effetto spiegabile dal fatto che i modelli di IA sono addestrati su dati prevalentemente occidentali e standardizzati, incapaci di riflettere tutta la complessità delle culture.

L’infanzia, ancora una volta, si dimostra saggia insegnante: non rifiuta la novità ma ne coglie subito i limiti ricordandoci che la manualità, il dialogo, la memoria condivisa sono esperienze educative insostituibili, non per nostalgia, ma perché allenano la mente al pensiero critico e alla lentezza della comprensione.

Anche gli adulti interpellati dalla stessa indagine rivelano un’ambivalenza simile: tra i genitori dei bambini che già usano l’intelligenza artificiale, più di tre quarti si dichiarano favorevoli ma circa l’ottanta per cento teme che li esponga a contenuti inadatti o fuorvianti.
Gli insegnanti invece, che già impiegano la macchina artificiale per pianificare lezioni e correggere compiti, ne lodano la capacità di alleggerire il lavoro quotidiano e di offrire un valido supporto agli alunni fragili; denunciano però la tendenza dei ragazzi a delegare troppo il pensiero critico e la creatività.

Tra i tanti aspetti colpisce la disparità sociale dove, nelle scuole private, oltre la metà dei bambini ha accesso regolare a queste tecnologie mentre, nelle scuole pubbliche, appena il diciotto per cento.
Non stupiamoci: le disuguaglianze digitali riflettono e amplificano quelle già esistenti, ma il fatto che l’IA possa aggravare ulteriormente la frattura dovrebbe spingerci ad una vigilanza più severa per impedire che diventi un nuovo strumento di esclusione educativa.

Il valore perduto dell’incertezza

Dietro i numeri, le paure e le promesse di questa alleanza tra infanzia e intelligenza artificiale, c’è un rischio ancora più sottile che le statistiche non registrano. Non riguarda i contenuti inappropriati, le disuguaglianze, la rappresentazione o l’impronta ecologica; non riguarda neppure la qualità immediata dell’apprendimento o della socializzazione. È un rischio che si annida più in profondità, nella trama stessa della coscienza: la perdita precoce della capacità di abitare l’incertezza.

Per sua natura, l’infanzia è un dialogo continuo tra curiosità e mistero, tra domande ingenue e silenzi carichi di significato. È l’età in cui si impara che non tutto si può sapere subito, che l’attesa ha un sapore dolceamaro, che il non-detto è un invito a immaginare. È proprio nell’intervallo tra la domanda e la risposta che la mente comincia a crescere davvero ed ecco, allora, svelarsi la vera minaccia di una generazione che interroga ogni giorno una macchina pronta a restituire una verità istantanea, formattata e priva di esitazioni; una nuova forma di “facilità delle risposte” che rischia di cancellare la fatica delle domande verso una rapidità del sapere privata della gioia della scoperta.

Forse, in fondo, l’umanità comincia proprio lì: nella capacità di convivere con ciò che non si può spiegare; nel desiderio di guardare oltre lo schermo e chiedersi ancora -perché?- senza correre subito a digitare la domanda in una casella vuota. Ed è in questa capacità che i bambini, con il loro stupore e la loro inquietudine feconda, continuano ad essere i nostri migliori maestri.

La domanda che ci riguarda

Che cosa stiamo insegnando ai nostri figli? 
E che cosa stiamo imparando da loro? 
Platone ci avvertiva che il vero maestro coltiva prima l’anima e solo dopo la tecnica, e Korczak, che per primo considerò il bambino un cittadino a pieno titolo, ci ricordava che ogni bambino è una responsabilità.
Nei tempi odierni queste massime ritrovano la loro attualità: nessuna macchina ci esime dal compito pedagogico, nessun algoritmo sostituisce la responsabilità dell’adulto. Non basta installare un filtro o scegliere un software “sicuro”: bisogna accompagnare l’infanzia nella comprensione critica di ciò che accade, spiegare che la verità non si riceve passivamente ma si costruisce con fatica, pensiero e discernimento.

E allora il consiglio più urgente non è tecnico ma umano: parlare con i bambini, spiegare loro che la macchina non è onnipotente, che sbaglia, che ripete pregiudizi, che consuma energia e acqua; scegliere con attenzione gli strumenti digitali preferendo quelli pensati per la loro età e accompagnandoli sempre con gesti e parole; ricordare il valore della manualità e della narrazione, non per nostalgia, ma perché formano la mente alla complessità e al discernimento; e, infine, non accettare che il luogo di nascita determini le opportunità perché ogni bambino ha diritto allo stesso accesso e alla stessa dignità digitale.

Chi sono i promotori dello studio

Lo studio Understanding the impacts of generative AI use on children, pubblicato il 7 luglio 2025, è frutto di una collaborazione fra tre prestigiose istituzioni internazionali, ciascuna portatrice di un approccio complementare: scientifico, pedagogico e culturale.

  1. The Alan Turing Institute
    È il centro nazionale britannico di ricerca sull’intelligenza artificiale e la scienza dei dati. Fondato a Londra nel 2015 e intitolato al celebre matematico Alan Turing, è una delle massime autorità mondiali nello studio delle tecnologie emergenti e delle loro implicazioni etiche e sociali. La sua missione è sviluppare tecnologie avanzate che migliorino la società, guidando al contempo un dibattito pubblico informato.

  2. UNICEF (United Nations Children’s Fund)
    Il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia è l’agenzia delle Nazioni Unite che da oltre settant’anni tutela i diritti dei bambini in tutto il mondo. È impegnata a garantire istruzione, salute, protezione e partecipazione per tutti i minori, soprattutto nei contesti più vulnerabili. In questo progetto ha contribuito a dare voce alle esigenze e ai diritti dell’infanzia di fronte alle trasformazioni tecnologiche.

  3. LEGO Foundation
    La fondazione danese è il braccio filantropico della celebre azienda di giocattoli LEGO e promuove l’apprendimento attraverso il gioco come diritto fondamentale di ogni bambino. La sua partecipazione ha assicurato un’attenzione particolare agli aspetti creativi e ludici dell’interazione tra bambini e tecnologia, sostenendo una visione dell’apprendimento che non rinuncia al piacere della scoperta.

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