Chi ha diritto a chiamarsi io?

La causa IYO vs OpenAI mostra il volto contraddittorio della proprietà industriale nella Silicon Valley tra identità speculativa, egemonie semantiche e cortocircuiti dell’innovazione

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C’è qualcosa di profondamente rivelatore nella guerra legale in corso tra IYO Inc. e OpenAI. Le due aziende che promettono di reinventare l’interazione tra esseri umani e tecnologia, si ritrovano oggi davanti a un tribunale per discutere chi abbia il diritto di usare una sigla di due lettere: “io”. 
Non è solo una questione di marchi ma un conflitto su chi può reclamare una porzione di significato in un mercato che, sempre più spesso, si costruisce prima nelle narrazioni che nei prodotti.

Il caso giudiziario appare semplice solo in superficie e appena si raschia l’involucro della procedura emergono domande più grandi: che cos’è un’identità di marca se non esiste ancora un prodotto? 
Può la sola somiglianza fonetica tra due segni giustificare un’ingiunzione preliminare, anche in assenza di uso commerciale? 
E chi decide in ultima istanza, chi può nominare cosa, nel futuro della tecnologia?

Fatti e cronologia: la causa prende forma

Il 9 giugno 2025 IYO Inc., startup fondata da Jason Rugolo e cresciuta nell’orbita di Google X, presenta una causa contro OpenAI, Sam Altman, Sir Jony Ive e la nuova entità “io Products Inc.” presso la U.S. District Court del Northern District of California (caso n. 3:25-cv-04861). 
L'accusa è di violazione del marchio “iyO” attraverso l’adozione del nome “io” da parte della nuova società.

Secondo la ricostruzione di IYO, la scelta del nome da parte di OpenAI e dei suoi partner genererebbe confusione con il loro marchio “iyO” registrato nel 2021 (pubblicato poi nel 2023), e con il prodotto “iyO ONE” promesso al pubblico questa estate. 
A ben vedere la dinamica che ha portato alla causa avrebbe radici più antiche: già dal 2022 Jason Rugolo avrebbe contattato alcuni degli attuali fondatori di io Products nel tentativo di ottenere investimenti o avviare collaborazioni. Quando Tang Tan e altri ex-designer Apple rifiutarono l’offerta di esaminare il portafoglio IP di IYO, i rapporti si interruppero. Solo in seguito, nel maggio 2025, OpenAI avrebbe annunciato l’acquisizione di io Products Inc., e da quel momento il nome “io” è diventato oggetto del contenzioso.

Secondo quanto sostenuto dai convenuti, però, l’uso di quel nome non rappresenterebbe una violazione del marchio “iyO”, anche perché il dominio “io.com” risulta acquistato da loro già nel 2023, quindi in anticipo rispetto a qualsiasi impiego dichiarato da IYO, la quale avrebbe iniziato ad usare il proprio marchio in commercio solo nel febbraio 2024.

Il 9 giugno IYO presenta quindi formale richiesta di misura cautelare: un temporary restraining order per bloccare l’uso del nome “io”.
La risposta legale dei convenuti, depositata il 12 giugno, contesta ogni presupposto dell’azione poiché nessun prodotto è stato ancora messo in commercio, quindi non esiste un utilizzo effettivo del marchio da parte di “io”.

In aggiunta, il 13 giugno, OpenAI ha rafforzato la propria posizione definendo la richiesta di misura cautelare “prematura” e “insufficiently ripe” in quanto non supportata da prove di confusione effettiva tra i consumatori. Tuttavia durante un’udienza del 18 giugno, il giudice ha riconosciuto che un video pubblico, in cui Sam Altman introduce ufficialmente “IO”, potrebbe aumentare il rischio di associazione indebita lasciando intendere una possibile apertura verso la concessione temporanea dell’ingiunzione. 
Ad ogni modo, secondo i legali non c’è né somiglianza sostanziale, né sovrapposizione di canali di vendita, né rischio concreto di confusione da parte dei consumatori.

La decisione definitiva sulla misura cautelare non è ancora stata emessa e la posizione del tribunale appare in evoluzione. Il nodo centrale non è solo la coincidenza fonetica dei nomi, ma la possibilità che le dichiarazioni pubbliche dei convenuti abbiano già generato un’associazione indebita nel percepito del pubblico.

Il paradosso del marchio senza prodotto

La vera particolarità di questa vicenda è che si combatte su un terreno puramente speculativo, infatti nessuna delle due aziende ha ancora un dispositivo in commercio
IYO aveva inizialmente annunciato il lancio di “iyO ONE” per l’inverno 2024, ma il rilascio è stato più volte posticipato. Ad oggi la versione Wi-Fi è attesa per agosto 2025, mentre quella LTE non ha ancora una data di uscita ufficiale. Il dispositivo si presenta come un “audio computer” da indossare dotato di 20 microfoni, beamforming, resistenza IP57, batteria da oltre 16 ore e varie app vocali basate su AI. Non è pensato per il mercato consumer, ma per una fascia ristretta di utenti altamente specializzati — come musicisti professionisti, ingegneri del suono, neuroscienziati dell’udito — e prevede una procedura di acquisto personalizzata che include la presa di impronte auricolari eseguita da professionisti audiometrici.

OpenAI, invece, attraverso l’acquisizione di io Products aveva comunicato soltanto l’intenzione di sviluppare un nuovo dispositivo AI centrato sull’interazione uomo-macchina, affidando il design a Jony Ive e al suo team, senza però fornire specifiche, né prototipi.

Eppure entrambe le parti rivendicano il diritto di dominare l’associazione semantica tra quel nome e l’idea di una nuova interfaccia uomo-macchina in un chiaro esempio di ciò che potremmo chiamare “proprietà industriale predittiva”: ambito legale in cui non si difende un diritto acquisito, ma un vantaggio potenziale.

Secondo il Codice della Proprietà Industriale italiano (artt. 7 e 20) e del diritto europeo, la registrazione di un marchio ha senso solo se quel marchio identifica realmente un prodotto/servizio sul mercato. In questo caso, però, il mercato è ancora un’ipotesi e il prodotto non esiste.

Questa mancanza di impiego effettivo del marchio è uno degli snodi principali della difesa presentata da OpenAI che richiama criteri consolidati secondo i quali l’esercizio del diritto sul marchio presuppone attività economica concreta
Anche nel diritto dell’Unione Europea l’art. 18 del Regolamento 2017/1001 prevede che il titolare debba usare il marchio entro cinque anni dalla registrazione, pena la decadenza per mancato uso. 
Sebbene l’argomento sia sviluppato in ambito statunitense, si muove in sintonia con la logica del diritto comparato.

La disputa semantica sull'io

Non è un dettaglio il fatto che entrambe le aziende stiano litigando per un nome che coincida con il pronome personale più carico di significato. Ma “IO” è anche l’abbreviazione informatica di input/output, sebbene in questo contesto si proietti oltre ambendo a diventare un simbolo identitario, un contenitore di senso, una bandiera.

Vorrei trasmettere in modo chiaro questo mio pensiero: possedere “io” in ambito tecnologico significherebbe detenere il diritto a rappresentare l’interfaccia tra uomo e macchina; potremmo considerarlo a tutti gli effetti una lotta per il significato ed ecco perché il caso assume una dimensione culturale più ampia. 
Michel Foucault, nei suoi studi sul potere linguistico, sosteneva che ogni struttura di dominio è anche un regime di enunciazione. In questo dominio chi controlla le parole controlla la realtà, e nel lessico delle nuove tecnologie certi termini non sono semplici segni commerciali: sono territori.

L’esodo da Apple e il capitale simbolico del design

C’è poi un ulteriore aspetto che rende il caso affascinante: con l’acquisizione di io Products, OpenAI ha arruolato alcune delle menti più creative del design industriale contemporaneo: Jony Ive, Evans Hankey, Tang Tan; tutti nomi legati alla Apple di Steve Jobs. Non si tratta solo di un trasferimento di competenze, ma una migrazione simbolica che vede OpenAI concentrata nell’obiettivo di assorbire il codice genetico stesso di Apple.

Questa strategia mira anche alla percezione pubblica, pensateci bene: il nome “io” con il suo minimalismo e la sua essenzialità non evoca solo funzioni tecniche. Evoca stile, visione, senso di futuro. 
Per IYO, che pure aveva investito nel proprio marchio, competere con un colosso che incarna questi simboli è estremamente difficile poiché la vera forza del nome “io” non risiede nella sua novità formale, ma nel contesto creativo da cui proviene. L’aspetto visivo e fonetico del nome, unito al pedigree dei suoi autori, amplifica l’impatto comunicativo ben oltre la semplice scelta delle due lettere.

Una battaglia legale o una rivelazione sistemica?

Il processo potrebbe anche risolversi in un rigetto della misura d’urgenza per assenza di uso commerciale, ma al di là dell’esito ciò che colpisce è il meccanismo sottostante che mostra due aziende contendersi uno spazio narrativo in assenza di oggetti. È il segno di un cambiamento profondo: la protezione legale si sposta dal prodotto al potenziale, dalla realtà al racconto. Si tratta di una logica che Naomi Klein denunciava già nei primi anni Duemila spiegando che, ormai, il marchio precede il prodotto e il racconto vale più della sostanza.

Ciò che IYO e OpenAI si contendono, in fondo, non è solo un nome: è la possibilità di essere percepiti come coloro che introdurranno la prossima rivoluzione nella relazione tra esseri umani e intelligenza artificiale attraverso la voce.

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